Mi è piaciuto molto questo articolo di Massimo Gramellini. Di seguito il testo:
Ridere e sorridere sono gesti diversi, quasi opposti. Due mondi. Si ride con la pancia, si sorride con la testa. In casi più rari, col cuore. Prendiamo Monna Lisa. Ho cercato tanto in giro il suo sorriso, trovandolo di rado, forse per colpa dei miei occhiali. Da ragazzo mi chiedevo per che cosa sorridesse quella donna. Certamente non per una battuta volgare, né per un doppio senso da film di Natale. Per un raffinato aforisma, ecco. O per il calembour di un dotto spasimante. Oppure per un pensiero nobile, declinato da un poeta capace di piegare le parole in forme sottili… E se invece a incresparle le labbra fosse stata l’immagine di Leonardo preso a torte in faccia?
Come tutti quelli che ridono poco e sorridono molto, temo di essere nato nel posto sbagliato. Me ne accorsi da ragazzo, quando le barzellette scurrili degli amici catturavano l’attenzione dell’uditorio molto più delle mie, che poi si riducevano sempre a una sola: quella dei tre inglesi che stanno giocando a carte nel loro club.
Dalla finestra aperta giunge il rombo di un motore. Dopo cinque minuti di silenzio un giocatore sussurra: «Era una Jaguar». Passano altri cinque minuti e interviene il secondo. «Non sono d’accordo. Era una Ferrari».
Dopo un’altra pausa interminabile il terzo getta le carte sul tavolo e si alza: «Me ne vado. Queste discussioni mi innervosiscono».
Prima che chiediate il mio internamento, ammetterò che Alberto Sordi alle prese col «maccarone» fa scompisciare anche me, e così Totò mentre detta a Peppino la lettera dei punti e virgola. Le risate più irresistibili della mia vita le devo alla scena di «Tre uomini in fuga» in cui Louis De Funès cerca di fermare le russate baritonali del suo compagno di stanza con suoni onomatopeici. Ciò non toglie che se fossi nato nell’antica Roma avrei preferito le commedie delicate di Terenzio a quelle facili di Plauto e che i miei scrittori e sceneggiatori preferiti siano inglesi o al massimo newyorchesi. Anni fa fu per me di grande insegnamento la visione di un film di Woody Allen in un cinema romano. «La dea dell’amore». Un susseguirsi esilarante di battute fini per le quali in sala mi sembrava di ridere, o sorridere a voce alta, soltanto io. Ma appena Woody chiese alla prostituta Mira Sorvino se per caso fosse nata a Vaccopoli, dei tizi dietro di me esplosero in uno sghignazzo irrefrenabile. Mi voltai a guardarli: erano i portavoce di due partiti dell’epoca, oggi fusi (ancora per poco) in uno solo.
Mi sono cacciato in un sentiero pericoloso: il sorriso come esclusiva degli snob esangui e acculturati, mentre i barbari affrontano la risata di petto, proprio come la vita. In realtà il sorriso sarebbe ben poca cosa, se fosse solo un tic intellettuale. Invece è uno scudo con cui deviare i colpi del destino. Sapere sorridere di se stessi è un calmante e al contempo un antidepressivo. Se la risata rappresenta uno sguardo critico o liberato sul mondo, il sorriso rimane anzitutto uno sguardo su se stessi. Un modo per ripiegarsi e rivelarsi. Diffidate dei tronfi che contrabbandano la pesantezza per profondità. La vera profondità, insegnava con l’esempio Italo Calvino, si raggiunge nella leggerezza, di cui il sorriso è l’immagine più autentica. Monna Lisa, ora lo so, è l’anima di Leonardo. Per questo sorride.
Ridere e sorridere sono gesti diversi, quasi opposti. Due mondi. Si ride con la pancia, si sorride con la testa. In casi più rari, col cuore. Prendiamo Monna Lisa. Ho cercato tanto in giro il suo sorriso, trovandolo di rado, forse per colpa dei miei occhiali. Da ragazzo mi chiedevo per che cosa sorridesse quella donna. Certamente non per una battuta volgare, né per un doppio senso da film di Natale. Per un raffinato aforisma, ecco. O per il calembour di un dotto spasimante. Oppure per un pensiero nobile, declinato da un poeta capace di piegare le parole in forme sottili… E se invece a incresparle le labbra fosse stata l’immagine di Leonardo preso a torte in faccia?
Come tutti quelli che ridono poco e sorridono molto, temo di essere nato nel posto sbagliato. Me ne accorsi da ragazzo, quando le barzellette scurrili degli amici catturavano l’attenzione dell’uditorio molto più delle mie, che poi si riducevano sempre a una sola: quella dei tre inglesi che stanno giocando a carte nel loro club.
Dalla finestra aperta giunge il rombo di un motore. Dopo cinque minuti di silenzio un giocatore sussurra: «Era una Jaguar». Passano altri cinque minuti e interviene il secondo. «Non sono d’accordo. Era una Ferrari».
Dopo un’altra pausa interminabile il terzo getta le carte sul tavolo e si alza: «Me ne vado. Queste discussioni mi innervosiscono».
Prima che chiediate il mio internamento, ammetterò che Alberto Sordi alle prese col «maccarone» fa scompisciare anche me, e così Totò mentre detta a Peppino la lettera dei punti e virgola. Le risate più irresistibili della mia vita le devo alla scena di «Tre uomini in fuga» in cui Louis De Funès cerca di fermare le russate baritonali del suo compagno di stanza con suoni onomatopeici. Ciò non toglie che se fossi nato nell’antica Roma avrei preferito le commedie delicate di Terenzio a quelle facili di Plauto e che i miei scrittori e sceneggiatori preferiti siano inglesi o al massimo newyorchesi. Anni fa fu per me di grande insegnamento la visione di un film di Woody Allen in un cinema romano. «La dea dell’amore». Un susseguirsi esilarante di battute fini per le quali in sala mi sembrava di ridere, o sorridere a voce alta, soltanto io. Ma appena Woody chiese alla prostituta Mira Sorvino se per caso fosse nata a Vaccopoli, dei tizi dietro di me esplosero in uno sghignazzo irrefrenabile. Mi voltai a guardarli: erano i portavoce di due partiti dell’epoca, oggi fusi (ancora per poco) in uno solo.
Mi sono cacciato in un sentiero pericoloso: il sorriso come esclusiva degli snob esangui e acculturati, mentre i barbari affrontano la risata di petto, proprio come la vita. In realtà il sorriso sarebbe ben poca cosa, se fosse solo un tic intellettuale. Invece è uno scudo con cui deviare i colpi del destino. Sapere sorridere di se stessi è un calmante e al contempo un antidepressivo. Se la risata rappresenta uno sguardo critico o liberato sul mondo, il sorriso rimane anzitutto uno sguardo su se stessi. Un modo per ripiegarsi e rivelarsi. Diffidate dei tronfi che contrabbandano la pesantezza per profondità. La vera profondità, insegnava con l’esempio Italo Calvino, si raggiunge nella leggerezza, di cui il sorriso è l’immagine più autentica. Monna Lisa, ora lo so, è l’anima di Leonardo. Per questo sorride.